Due belle, corroboranti notizie.
Carlo Salvioni, allievo del corso di scrittura creativa che ho tenuto lo scorso anno presso la Biblioteca Tiraboschi di Bergamo, sta terminando il secondo libro dopo quello scritto lo scorso anno “Prima delle rivoluzioni”.
Marco Bruttosmesso e Antonella Cardone, allievi del corso di scrittura che ho tenuto in primavera presso il Liceo Musicale di Varese, sono entrati nella decina di finalisti del concorso letterario “Festival delle lettere” che il 6 ottobre indicherà il vincitore al teatro Dal Verme di Milano.
Bravi ragazzi, sono fiero di voi!
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Ma come sono bravi i miei allievi dei corsi di scrittura
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Corso di scrittura in carcere, ovvero quando i libri ti fanno sentire libero
Nell’ultimo anno, insieme con Sergio Meda, ho tenuto due corsi di scrittura creativa e giornalismo nel carcere di Bollate. I partecipanti erano detenuti appesantiti da pene non indifferenti. Ma tutti, scoprendo i segreti della scrittura, alla fine si sono sentiti un po’ più liberi. Il testo che segue è dedicato a loro (per la verità avrei voluto pubblicarlo anche su un giornale. L’ho proposto al Corriere della Sera, a Panorama, al Venerdì, a Gente, ad altri ancora ma l’argomento non interessa a nessuno. Non hanno voluto neanche leggerlo. Pazienza).
Il corridoio che porta al settimo reparto è lungo quasi un chilometro. Il pavimento è tirato a lucido, non un filo di polvere. I passi rimbombano in un sordo clap clap che il silenzio del luogo rende assordante.
Il muro di destra è interrotto da una serie di finestre sbarrate che danno sul cortile. Oltre le sbarre c’è una parete di circa sei metri alta e invalicabile. Il muro di sinistra è costellato di orologi. Ce n’è uno ogni settanta, ottanta metri, ma gli orari sono tutti diversi. Un orologio segna le 9.30, l’altro le 16, poi le 19 e 10, le 21 e 15, le 8 in punto. Non ce ne sono due che abbiano la stessa ora. E sono tutti fermi.
La visione è per certi versi inquietante, comunque singolare. Chiedo alla giovane volontaria che ci accompagna se si tratti per caso di un sistema subliminale per far sì che i detenuti perdano la cognizione del tempo.
“Macché, è soltanto incuria” risponde sorridendo “O forse una caratteristica delle carceri italiane. Anche perché i detenuti hanno tutti l’orologio al polso e il senso del tempo ce l’hanno benissimo”.
La spiegazione è disarmante. Ci guardiamo perplessi, io e Sergio Meda, il collega che condivide con me questa esperienza. Dobbiamo incontrare i detenuti del settimo reparto, qui nel carcere di Bollate, per spiegare loro come si scrive un articolo per un giornale e come si scrive invece un racconto, se non addirittura un romanzo. Sono stati i detenuti stessi a chiederlo. Dopo aver seguito per vari mesi, tutti i sabato pomeriggio, stimolanti corsi di lettura hanno chiesto di fare un ulteriore passo. Perché solo la lettura? Vogliamo imparare anche la scrittura, hanno detto. Ed eccoci, Sergio ed io, lungo il corridoio che porta al settimo raggio.
La camminata è lunga e mentre la consumiamo ci chiediamo ancora, senza parlare, che cosa ci aspetta. È la prima volta, per tutti e due, che mettiamo piede in un carcere. L’impatto è stato abbastanza tosto. Documenti, metal detector, via i telefoni cellulari, gli sguardi infastiditi degli uomini della polizia penitenziaria, le espressioni severe di chi nelle ore di lavoro non sorride mai. Se questi sono i controllori, abbiamo pensato, chissà i controllati.
Invece è il contrario.
Superato l’ultimo cancello e il relativo controllo, ricevuto il pass che dobbiamo tenere penzoloni al collo, eccoci con i nostri allievi.
Sono una quindicina. Per accoglierci hanno preparato una saletta. O meglio, hanno ottenuto di poter occupare una saletta perché al suo interno di preparato non c’è niente, né lavagna, né tavolo, né altro, soltanto un buon numero di sedie sgangherate.
Sono di tutte le età. A prima vista la media sembra sui quarant’anni. C’è un ragazzino finto timido che ne avrà sì e no ventidue e, per contrasto, un uomo dalla faccia grinzosa e furba vicino ai settanta.
Non so quali reati abbiano commesso. Non lo so e non ho alcuna intenzione di chiederlo. Sono qui per insegnare, se ci riesco, come si scrive non come si campa.
Veniamo accolti con curiosità, direi quasi con entusiasmo. Sembrano fanciulli. Forse hanno rubato, imbrogliato, violentato o picchiato il prossimo, ma adesso sembrano ragazzi in attesa che la festicciola incominci.
Tocca a me fare l’introduzione. Sergio Meda è contento di lasciarmi il compito, lui interverrà dopo. Il saluto formale che mi viene rivolto, “buongiorno professore” non mi aiuta, tutt’altro, ma chissà, forse è proprio quell’approccio cattedratico a suggerirmi che se devo rompere il ghiaccio sarà bene che lo faccia con coraggio.
“Buon giorno a tutti. Sono qui per spiegarvi che cos’è la scrittura d’evasione…”.
Un secondo di silenzio, un’attesa carica di imbarazzo, poi una risata collettiva.
È fatta. Diventeremo amici.
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Il corso di giornalismo e scrittura creativa nel carcere di Bollate è durato dieci ore: due alla settimana, il martedì pomeriggio, per cinque settimane. Abbiamo parlato di sport, politica, spettacolo, abbiamo provato a scrivere dei racconti, inventarci delle storie, abbiamo fatto dei giochini con le parole ed è stata un’esperienza interessante e formativa. Per loro e per me. Non credo che da Bollate uscirà un nuovo Edward Bunker, ma a qualcosina il corso è senz’altro servito. Se non altro al morale e all’autostima.
Al termine del primo incontro, quando ancora mi chiamavano “professore” e mi davano del “lei”, rinviando di soli sette giorni il passaggio cameratesco al Lello e al “tu”, appena fuori dalla porta, in corridoio, mi ha avvicinato Carlo.
Il volto magro solcato da due lunghe rughe verticali, la barba incolta e ispida, gli occhi neri, non aveva pronunciato una sola parola per tutta la durata della lezione. Mi ha preso da parte e, prima di infilarsi nel raggio che porta alla sua cella, finalmente ha aperto bocca.
“Io un libro l’ho già scritto”.
“Ah, bene”.
“L’ho scritto quando ero a San Vittore”.
“Capisco”.
“Adesso vorrei pubblicarlo”.
“Non è facile. Di che cosa si tratta?”.
“L’Orlando Furioso”.
“Scusa…”
“Una specie di Orlando Furioso. Come si fa a pubblicarlo?”
“Vediamo. Intanto dovrei almeno leggerlo”.
“La prossima volta glielo porto”.
“Quanto è lungo?”
“Io scrivo a mano su un quadernetto. Saranno quindici pagine”.
“Va bene. Portamelo”.
Non me l’ha mai portato, quell’Orlando Furioso in quindici pagine di un quadernetto, ma ogni settimana, al termine delle lezioni Carlo mi ha preso da parte in corridoio, per dirmi, confidenzialmente, che lui un libro l’aveva già scritto, quando era a San Vittore, era una specie di Orlando Furioso e voleva trovare il modo di pubblicarlo perché “quando uscirò di qui non so come farò a campare. Non ho più un lavoro, la famiglia mi ha scaricato, se almeno riuscissi a guadagnare qualcosa con le vendite del libro…”.
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Anche Manolo scriveva a mano. Una grafia irregolare, nervosa, le “g” che sembravano “f”, le “t” che si confondevano con le “l”. Non c’erano le “q”. Manolo scriveva “cuando”, “cualsiasi”, “cuesto” e “cuello”. Ma scriveva tanto, tantissimo, e aveva fantasia. Quando, al termine di una lezione sulla trama, ho chiesto a tutti quanti di provare a scriverne una che avremmo commentato la settimana successiva, gli altri hanno buttato giù poche righe schematiche, Manolo una dozzina di pagine di quaderno (“cuaderno”?) che ha letto ad alta voce, con enfasi e partecipazione.
Era una storia di rapine, fughe e tradimenti nel più classico e tradizionale dei racconti noir. Si concludeva con quello che Manolo considerava un lieto fine: la fuga in mare aperto su uno yacht carico di refurtiva, in barba ai poliziotti.
“Che ne dice? Posso farlo diventare un libro?”
Il più pronto a rispondere, al posto mio, è stato il detenuto che gli stava a fianco. “Basta che cambi il finale, Manolo. Le storie di rapine finiscono sempre qua dentro, dovresti saperlo. Altro che lo yacht in mare aperto…”
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A Gianni, Pierluigi e Claudio interessava maggiormente il giornalismo. A Gianni e Pierluigi lo sport, a Claudio la politica. Ed è toccato a Sergio Meda farsene carico. L’hanno martellato per due ore a fila. Domande a raffica, curiosità, incredulità.
“Davvero hai conosciuto Pantani? E com’era, com’era Pantani?”.
“E chissà quante attrici, quante belle donne hai intervistato, eh Sergio, chissà quante…”.
“Come si fa a diventare giornalisti? È difficile? A me piacerebbe fare il giornalista televisivo”.
A questo punto li abbiamo sfidati.
“Volete fare i giornalisti? Va bene, facciamo una prova. Immaginate di intervistare un personaggio famoso, uno qualsiasi, vivo o morto non importa. Domanda e risposta, come se fosse un’intervista reale”.
Sette giorni dopo abbiamo letto gli articoli ad alta voce.
Claudio aveva intervistato l’ex ct della Nazionale Marcello Lippi, e va bene, ma Pierluigi aveva voluto incontrare Benito Mussolini, Carlo addirittura Hitler e Marietto aveva chiesto a Einstein di spiegargli, in poche parole, i misteri dell’universo.
Grottesche, improponibili, assurde, ma comunque interviste crude, dirette, di pancia.
“Sì, io effettivamente ogni tanto scrivo già per il giornalino del carcere di San Vittore” ha detto Claudio, tirandosela un po’, a Sergio Meda dopo aver ricevuto i complimenti per la sua intervista a Lippi. Era curiosa, in effetti, perché composta da una domanda e due risposte. La prima risposta era quella che l’allenatore dava alla stampa, formale e diplomatica; la seconda era la risposta vera che non veniva però esternata ma restava nella mente di Lippi e nell’immaginazione del suo furbissimo intervistatore.
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Durante i giorni del corso, tanto per gradire, si era registrato l’ennesimo assassinio di una donna. Era nato il termine “femminicidio” e di questo abbiamo parlato con i detenuti durante la lezione. Mentre Sergio spiegava come nascono e, grazie ai giornali, diventano popolari certi termini, vedi tangentopoli o rottamazione, o certi soprannomi come il Trota, Supermario o i grillini, Giancarlo mi ha tirato per un braccio, si è curvato verso di me, obbligandomi a fare lo stesso, ha avvicinato la bocca al mio orecchio e mi ha confidato:
“Io so perché da qualche tempo vengono uccise tante donne”.
“Ah, e perché?”
“È colpa dei giudici”.
“Dei giudici?”
“Sì, perché vedi, se tu violenti una donna e poi la lasci andare, quella ti denuncia e ti danno una dozzina d’anni. Giusto? Se dopo averla violentata la ammazzi, ti danno diciotto, vent’anni, difficilmente l’ergastolo perché trovano sempre un’attenuante, e col rito immediato gli anni diventano dodici, tredici, insomma che la ammazzi o la lasci andare alla fine la pena è più o meno la stessa”
“Già”.
“Però c’è una differenza. Se la lasci andare quella ti denuncia sicuro. Se la uccidi puoi anche farla franca. Questo pensano gli assassini. Io non è che sono d’accordo, ci mancherebbe. Io semplicemente l’ho capito. Ho capito perché è nato il femminicidio. È colpa dei giudici, che sono teneri con gli assassini e severi con i violentatori. Io ho preso quattro anni e otto mesi. Non tutti in un colpo, un po’ alla volta. Sono stato con una che era consenziente, quella mi ha denunciato: un anno e mezzo! Nel retro del mio negozio, io avevo un negozio di parrucchiere che adesso non ho più, le commesse si prostituivano, senza che io ne sapessi niente: altri diciotto mesi per induzione alla prostituzione e io non c’entravo. Poi ho messo la mano sulla spalla di una ragazza, così, appena appena, una mano sulla spalla, quella mi ha denunciato e un’altra condanna. Insomma…”
“Insomma?”
“Insomma, fra un po’ esco, ho quasi finito e quando esco vorrei fare l’investigatore, perché io ho capito perché succedono tanti delitti. Come si fa a diventare investigatori? Lo sai come si fa?”
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Il problema del “che fare” una volta usciti ce l’hanno in molti, dall’autore dell’Orlando Furioso all’ex parrucchiere che ha capito tutto sul femminicidio. Lo sa anche la direzione del carcere e difatti Bollate, nato nel 2000 come “Istituto a custodia attenuata per detenuti comuni”, è in prima fila in Italia per quanto riguarda l’opera di reinserimento nella società al termine della pena. Reinserimento che significa soprattutto prevenzione della recidiva. Le statistiche dicono che su cento detenuti che lasciano il carcere di Bollate soltanto dodici ci ricascano, una percentuale molto più bassa di quella delle altre carceri italiane.
Non ci ricascano perché durante la detenzione hanno imparato un lavoro. Qui c’è la falegnameria, c’è la sartoria, si fa giardinaggio, c’è un orto botanico che lascia a bocca aperta, si curano i cavalli, c’è il laboratorio di riparazioni elettroniche. Sono i detenuti di Bollate, sì, loro, che mettono a posto i nostri telefonini guasti.
I reclusi sono 1040, soltanto 70 in più dei previsti 970, un esubero ridicolo rispetto a San Vittore che rischia ogni giorno di scoppiare. Dieci sono ergastolani, tra cui il già citato Vallanzasca, tutti gli altri con pene definitive che variano dai tre ai trent’anni. Le donne sono una cinquantina. Tra queste c’è Rosa, quella della strage di Erba, compagna di Olindo, e fino a poco tempo fa c’era Vanna Marchi, ora tornata in libertà. L’ho incrociata una volta, Vanna Marchi, io entravo, lei usciva quando era ancora in regime di semilibertà. Lo sguardo di sempre, gelido e sprezzante.
La polizia penitenziaria è formata da trecentonovanta persone, gli educatori sono tredici, gli psicologi quattro e gli impiegati una cinquantina. Poi ci sono i volontari, tra cui Sergio Meda e io, che insegnano la pittura, la ceramica, l’uso del computer, il teatro, il giornalismo, la scrittura…
“Questo per noi è un albergo a cinque stelle” dice Antonio “Chi viene destinato qui può dirsi fortunato. Il personale è umano, c’è ordine, rispetto delle persone, pulizia. Non come a San Vittore che di notte ti svegli perché hai uno scarafaggio che ti cammina sul petto, o come a Poggioreale, un inferno. Io sono stato sia a San Vittore sia a Poggioreale e non vi dico. Certo pure qua bisogna stare all’occhio, ogni volta che vuoi fare qualcosa ci vuole la domandina. La domandina, che incubo, la domandina…”.
Già, la domandina. Anche per partecipare al corso di scrittura c’è voluta la domandina. Domandina scritta, naturalmente. Il diminuitivo credo che dipenda dal fatto che la Domanda, quella vera e grande, per un detenuto è soltanto quella di grazia. Ma forse è soltanto una mia congettura.
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Al quarto incontro ho fatto una gaffe. Involontaria, come tutte le gaffe. La lezione stava finendo, stavamo ormai cazzeggiando, avendo esaurito tutti gli argomenti del giorno, i detenuti ancora non si alzavano per ritardare il più possibile il ritorno in cella e a quel punto ho chiesto: “Chi sarà il primo di voi a uscire?”.
Nella stanza è piombato il gelo. Nessuno ha risposto, è cessato anche il lieve brusio che riempiva l’aria. Tutti zitti e immobili, soltanto un vorticare di sguardi. Mi sono guardato intorno anch’io, cercando di capire che cosa fosse successo. Poi, dopo un tempo interminabile, il detenuto settantenne dal volto grinzoso mi ha detto: “Lello, queste domande non si fanno. Mai”.
Ho chiesto scusa senza chiedere neppure il perché.
Il gelo piano piano si è sciolto, l’atmosfera è tornata quella di prima, ma il tarlo ha continuato a girare nella testa di qualcuno che sulla porta mi ha chiesto: “Perché prima ci hai fatto quella domanda?”.
“Mah… così… per curiosità. Perché mi sembrava che tra noi si fosse creato un clima di confidenza”.
“Nient’altro?”
“Nient’altro”.
“Ti credo”.
Non ho mai capito il senso vero della gaffe, ma la fastidiosa sensazione di averla commessa mi è rimasta addosso per un bel pezzo. E poi ho capito. Ho capito che la vita nel carcere è costellata di leggi non scritte. Quella di non fare domande sulla scarcerazione è una, ma ce ne sono altre che riguardano le malattie, i soldi, i permessi, le punizioni. E soprattutto una, la regola-regina il cui rispetto mi è stato raccomandato dall’assistente sociale. Non bisogna mai chiedere a un detenuto perché è finito dentro. Io sono stato dieci ore a contatto con i partecipanti al corso di scrittura e questa domanda non l’ho mai fatta. Soltanto uno, l’aspirante investigatore, mi ha confidato le sue colpe, ma è stato lui a volerlo fare. Gli altri potevano essere ladri, truffatori, rapinatori, violentatori, potevano aver commesso reati di qualsiasi tipo, io non l’ho mai saputo. Non ho fatto la gaffe di chiederlo.
“Ma se anche l’avessi domandato” mi ha detto l’assistente sociale, “stai tranquillo che ti avrebbero risposto tutti di essere vittime innocenti di un errore giudiziario” .
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L’ultima lezione del corso è arrivata in fretta ed è stata una sensazione strana. Ho detto all’inizio che il giorno della prima lezione i detenuti sembravano ragazzini curiosi ed entusiasti. Bene, l’impressione finale è stata ancora più strana. Erano tutti molto soddisfatti dell’esperienza fatta, ma soprattutto erano dispiaciuti che fosse già finita. Ci hanno salutato, hanno chiesto le nostre mail per poterci contattare in futuro e ci hanno detto che faranno una domandina perché il corso possa avere un seguito al più presto. Infine, sulla porta, il commento mozzafiato affidato al più rappresentativo di loro:
“Grazie Lello, grazie Sergio. È stata una bellissima esperienza. Durante le ore del corso, parlando di libri, giornali e sogni, ci avete fatto sentire liberi”.
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Il corso della vita
Dopo sedici ore propositive, proficue e, perché no?, divertenti, si è concluso in bellezza il corso di scrittura creativa che ho tenuto a Varese, con il prezioso appoggio di Sergio Meda. E ho chiesto proprio a lui, a Sergio Meda, di scrivere l’articolo cnclusivo, nel quale se l’è presa soprattutto con i disertori. Eccolo.
di SERGIO MEDA – Alla terza lezione aveva sibilato che se Lello, il prof con quel nomignolo buffo, non si fosse ricordato il suo nome, se avesse continuato imperterrito a fare l’appello, avrebbe chiuso lì. Belloccia, non tollerava di passare inosservata. Capita con le donne di ogni età.
Altri sembravano lì per caso, secondo me qualcuno aveva sbagliato corso. C’era anche, non lontano, quello di rieducazione alla sobrietà, genere alcolisti anonimi, un ottimo eufemismo per evitare di parlare di dipendenze.
In effetti, uno degli scomparsi cercava sempre la ludoteca, difficile da trovare in un liceo musicale di Varese. Continuava a dire slot e nessuno sembrava capire che si riferiva alle macchinette, che a Varese ci sono. Meno che a Pavia ma ci sono. Anche lui scomparso alla terza lezione.
Un altro, verosimilmente un portantino, parlava sempre di ambulanze ma poteva essere un suo trip, senza angoscia. Sarebbe stato bello annotarlo in sirena, magari portato via da un’emergenza, un bel martedì notte. Niente di inaspettato, se n’è andato anche lui senza rumore. al massimo un fruscio.
Quello dei vascelli, dei pirati, una specie di Robinson Crusoe post litteram, sparito lui pure una bella sera. Forse ha trovato una fidanzata che apprezzava i suoi racconti.
La quarta lezione del corso fu una morìa. Non un’ecatombe ma quasi. Dai 17 presunti corsisti a massimo 12 massimo non è un conforto per chi dovrebbe avere a cuore le pecorelle se si smarriscono. Ma il prof non se ne curava. Pecora smarrita non bela più.
Il prof si era portato anche un cane, non lo teneva al guinzaglio, ma gli sedeva vicino. Meglio, si accucciava. Ogni tanto una museruola sarebbe stata opportuna, soprattutto quando ringhiava a questo o a quella i suoi modi di essere. Un cagnaccio.
Quante storie nel Corso della vita…
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Varese parte II: il trascorrere del corso
di SERGIO MEDA
Del corso varesino di scrittura creativa tenuto da un avveduto scrittore con trascorsi di giornalismo già sapete. Vi manca soltanto la piega (buona) che il corso, nel suo dipanarsi, ha preso. Dopo aver assistito a tre ricorrenze – ogni incontro è tale, perché cadenzato settimanalmente, il martedì sera – nessuno dei partecipanti coltiva l’ambizione di divenire un giorno un autore celebrato, costretto suo malgrado a improbabili dediche affettuose a chi gli si affolla intorno dopo aver lodevolmente acquistato il suo capolavoro.
Come direbbe Camilleri, “si sono fatti tutti persuasi” che stanno partecipando a un gioco divertente che apre la mente, in alcuni casi la spalanca alle frontiere della scrittura che è sì inventiva, creatività, ma è soprattutto metodo, applicazione e, molto spesso, sacrificio. Talvolta con risultati apprezzabili per chi se ne fa carico.
Con levità lo sta predicando il docente, sempre paziente, attento a non mortificare alcun impulso, a rispettare le ambizioni di ciascuno per quello che è, al momento, e per quello che vorrebbe essere, a sua propria dimensione.
Il gioco consiste nel partecipare (il barone de Coubertin è ancora tra noi, per fortuna) e nel condividere. Sani principi che danno luogo a una classe che ha il vantaggio di non avere asini. Al più, qualcuno ha risolto i suoi problemi decidendo di avere altro da fare, il martedì sera. I più convinti tra i corsisti si sono dati un … doposcuola, a base di birra e due chiacchiere per conoscere meglio il vicino o lontano di sedia.
Il corso, va detto, coinvolge i partecipanti senza stressarli. Li costringe ai compiti a casa – vuoi d’intreccio, di proposta degli attori, protagonisti e comprimari, di modalità espositive, in prima persona o in forma indiretta, di dialoghi che sono per tutti uno scoglio – ma senza timore di sbagliare. I compiacimenti rimangono altrove insieme alla voglia di esibirsi. Fugace, dimenticata.
Le competizioni – inevitabili – sono confinate ai maschi, quelle femminili rimangono sotto traccia. La lettura degli elaborati legittima talvolta facce a punto di domanda, mai sorrisi beffardi. Il confronto è civile, le interpretazioni non malevole. I lavori troppo ermetici fanno dire a qualcuno, candidamente, “mi ero perso”. Alcuni proseguono i racconti sul filo delle loro fantasie.
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Alla ricerca di talenti alla libreria Liub di Bergamo
Mentre prosegue,con reciproca soddisfazione, mia e degli iscritti, il corso di scrittura creativa presso il Liceo Musicale di Varese, ne sta per partire un altro. Mercoledì 15 maggio incominceremo a parlare di romanzi, racconti, trame, personaggi, punti di vista, dialoghi e quant’altro a Bergamo, presso la libreria LIUB di via dei Caniani, di fronte all’Università. Ne parleremo per cinque mercoledì a fila, dalle 20 alle 22 e, grazie all’esperienza che mi sto facendo ormai da qualche tempo, sono certo che ci divertiremo. E chissà che non emerga un autentico talento.
Se qualcuno fosse interessato, bisogna che parli con Anna, che dirige la libreria e i corsi: 035/249024 oppure info@liub.it.
Ci vediamo il 15 maggio.
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Dal nostro inviato a un corso di scrittura creativa
di SERGIO MEDA
Suscita curiosità e attenzione la pletora di corsi di scrittura creativa che si rincorrono nel Paese, dalle Alpi al Lilibeo. Ci si chiede chi siano coloro che si affidano a uno o più esperti (c’è anche chi dopo il primo corso ne frequenta un secondo e poi un terzo, è quasi accanimento terapeutico) per sondare le proprie capacità di scrittura e perché lo facciano, sottoponendo la propria creatività al giudizio di un’entità terza. Al termine questi corsi non rilasciano un diploma ufficiale, a volte neppure un semplice attestato, che in ogni caso servirebbe a certificare la sola partecipazione, non certo l’idoneità alla scrittura o un odioso pollice verso.
Siamo andati a seguirne uno a Varese dal costo contenuto, promosso dal Comune presso il Liceo Musicale e articolato in otto settimane, due ore ogni martedì sera fra le 20,30 e le 22,30. Un orario che non facilita la puntualità, anche se dopo le otto di sera Varese è una città fantasma, circola soltanto chi deve.
I ritardatari, non pochi, si scusano con un sorriso imbarazzato, giustificarsi a parole sarebbe un’inutile interruzione. In una pausa chiariranno chi sono, perché l’appello generale c’è stato nei preliminari, presenti i due terzi dei corsisti. Ritardatari cronici i due che non si sono presentati, quella sera.
Diciassette i partecipanti, in maggioranza donne, dieci contro sette, di età variegata. Tra i maschi c’è una curiosa prevalenza di quasi giovani (intorno ai 35 anni) e abbastanza single. Le donne sono leggermente più mature (appena sopra i 40 nella media), in apparenza sicure delle loro scelte di vita. Sono casalinghe e mamme oppure impiegate che si regalano un corso di scrittura creativa per appagare un’aspettativa ancora inevasa.
Gli uomini hanno motivazioni imperscrutabili, alcuni sembrano lì per vanità, altri per nascondersi. Alcuni sono disinvolti, altri schivi, inguaribilmente timidi.
Il corso lo conduce, mostrando di crederci, uno scrittore con felici trascorsi nel giornalismo, a lungo dedito alla letteratura gialla e poi vocato a romanzi ambientati in Italia, sempre intriganti.
Il corso si sviluppa con confronti aperti, conversazioni a più voci in cui ciascuno esprime pareri, intenzioni e si spende. La settimana prima i partecipanti hanno avuto un compito a casa, seguendo tre possibili filoni: due trame abbozzate, da proseguire con uno sforzo di fantasia oppure lo stravolgimento dell’epilogo di una storia ben nota. Se non fosse finita come sappiamo….
Curioso, solo tre uomini scelgono l’ultima opzione, trattandola come un plot, un semplice intreccio. La gran parte delle donne si produce in sviluppi articolati e finali a sorpresa, un paio riuscitissimi. C’è chi approfondisce lo scenario ma non i protagonisti, con lungaggini che producono apprezzate autocritiche. A volte i dialoghi sono ficcanti, a volte scontati. Ogni tanto emergono banalità, luoghi comuni, lessico aulico (senza la necessaria benedizione dell’Accademia della Crusca), l’intero campionario che spesso vincola chi vorrebbe uscire dal coro e non si accorge di essere incatenato allo stesso. La prossima volta toccherà ai personaggi, da articolare tratteggiandoli al meglio.
Ogni martedì è un cimento, ma senza tormenti, in apparenza. Il corso, per chi non lo abbandonerà – talvolta capita – si riserva a chi si mette in gioco, a parole e per iscritto. Già per questo onora la creatività.
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“È la stampa bellezza!”, un corso di giornalismo ispirato a Humphrey Bogart
“È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente”. La frase, ormai leggendaria, viene pronunciata da Humphrey Bogart nell’ultima scena del film “L’ultima minaccia” del 1952. Io gliel’ho rubata e ho intitolato in questo modo un corso di giornalismo che terrò nel mese di maggio a Sordevolo, vicino a Biella, nel meraviglioso Parlo Letterario Franco Antonicelli. Dieci ore di lezione, suddivise in quattro venerdì, a partire dal giorno 10. Se a qualcuno fosse interessato, può andare suol sito http://www.parchiletterari.com dove è spiegato tutto.
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Un nuovo romanzo che nascerà tra i banchi di un liceo di Piacenza
Si chiama Bookgenerator ed è un’iniziativa entusiasmante cui parteciperò con grande piacere. Si tratta di questo: uno scrive un romanzo (in questo caso io) e prima ancora di affidarlo all’editore, lo fa leggere a un gruppo di liceali. Questi lo esaminano, poi si incontrano con l’autore (sempre io) e gli dicono se va bene o no, se c’è qualcosa di poco chiao, se è consigliabile qualche modifica. In pratica, gli studenti fanno gli editors. E non solo: assistono alla creazione della copertina, dai primi bozzetti al risultato finale, incontrando l’illustratore. Per finire, ascoltano il responsabile della comunicazione e del marketing della casa editrice scoprendo l’importanza della creatività e delle buone idee nella strategia di lancio del libro. Fatto tutto questo gli studenti del liceo organizzeranno un evento pubblico di lancio del libro.
Insomma una collaborazione straordinaria tra autore, editore e studenti. Io ne usufruirò nei prossimi mesi per la nascita del mio nuovo romanzo. Come si intitola? Dipende. Io un’idea ce l’ho, ma bisognerà vedere se piace agli studenti…
Per la cronaca, gli interessati sono quelli del liceo Melchiorre Gioia di Piacenza. L’editore è Marcos y Marcos.
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2012 in review
I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2012 per questo blog.
Ecco un estratto:
600 people reached the top of Mt. Everest in 2012. This blog got about 1.900 views in 2012. If every person who reached the top of Mt. Everest viewed this blog, it would have taken 3 years to get that many views.
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