Ma come sono bravi i miei allievi dei corsi di scrittura

Due belle, corroboranti notizie.
Carlo Salvioni, allievo del corso di scrittura creativa che ho tenuto lo scorso anno presso la Biblioteca Tiraboschi di Bergamo, sta terminando il secondo libro dopo quello scritto lo scorso anno “Prima delle rivoluzioni”.
Marco Bruttosmesso e Antonella Cardone, allievi del corso di scrittura che ho tenuto in primavera presso il Liceo Musicale di Varese, sono entrati nella decina di finalisti del concorso letterario “Festival delle lettere” che il 6 ottobre indicherà il vincitore al teatro Dal Verme di Milano.
Bravi ragazzi, sono fiero di voi!

5 commenti

Archiviato in Uncategorized

Corso di scrittura in carcere, ovvero quando i libri ti fanno sentire libero

Nell’ultimo anno, insieme con Sergio Meda, ho tenuto due corsi di scrittura creativa e giornalismo nel carcere di Bollate. I partecipanti erano detenuti appesantiti da pene non indifferenti. Ma tutti, scoprendo i segreti della scrittura, alla fine si sono sentiti un po’ più liberi. Il testo che segue è dedicato a loro (per la verità avrei voluto pubblicarlo anche su un giornale. L’ho proposto al Corriere della Sera, a Panorama, al Venerdì, a Gente, ad altri ancora ma l’argomento non interessa a nessuno. Non hanno voluto neanche leggerlo. Pazienza).

Il corridoio che porta al settimo reparto è lungo quasi un chilometro. Il pavimento è tirato a lucido, non un filo di polvere. I passi rimbombano in un sordo clap clap che il silenzio del luogo rende assordante.
Il muro di destra è interrotto da una serie di finestre sbarrate che danno sul cortile. Oltre le sbarre c’è una parete di circa sei metri alta e invalicabile. Il muro di sinistra è costellato di orologi. Ce n’è uno ogni settanta, ottanta metri, ma gli orari sono tutti diversi. Un orologio segna le 9.30, l’altro le 16, poi le 19 e 10, le 21 e 15, le 8 in punto. Non ce ne sono due che abbiano la stessa ora. E sono tutti fermi.
La visione è per certi versi inquietante, comunque singolare. Chiedo alla giovane volontaria che ci accompagna se si tratti per caso di un sistema subliminale per far sì che i detenuti perdano la cognizione del tempo.
“Macché, è soltanto incuria” risponde sorridendo “O forse una caratteristica delle carceri italiane. Anche perché i detenuti hanno tutti l’orologio al polso e il senso del tempo ce l’hanno benissimo”.
La spiegazione è disarmante. Ci guardiamo perplessi, io e Sergio Meda, il collega che condivide con me questa esperienza. Dobbiamo incontrare i detenuti del settimo reparto, qui nel carcere di Bollate, per spiegare loro come si scrive un articolo per un giornale e come si scrive invece un racconto, se non addirittura un romanzo. Sono stati i detenuti stessi a chiederlo. Dopo aver seguito per vari mesi, tutti i sabato pomeriggio, stimolanti corsi di lettura hanno chiesto di fare un ulteriore passo. Perché solo la lettura? Vogliamo imparare anche la scrittura, hanno detto. Ed eccoci, Sergio ed io, lungo il corridoio che porta al settimo raggio.
La camminata è lunga e mentre la consumiamo ci chiediamo ancora, senza parlare, che cosa ci aspetta. È la prima volta, per tutti e due, che mettiamo piede in un carcere. L’impatto è stato abbastanza tosto. Documenti, metal detector, via i telefoni cellulari, gli sguardi infastiditi degli uomini della polizia penitenziaria, le espressioni severe di chi nelle ore di lavoro non sorride mai. Se questi sono i controllori, abbiamo pensato, chissà i controllati.
Invece è il contrario.
Superato l’ultimo cancello e il relativo controllo, ricevuto il pass che dobbiamo tenere penzoloni al collo, eccoci con i nostri allievi.
Sono una quindicina. Per accoglierci hanno preparato una saletta. O meglio, hanno ottenuto di poter occupare una saletta perché al suo interno di preparato non c’è niente, né lavagna, né tavolo, né altro, soltanto un buon numero di sedie sgangherate.
Sono di tutte le età. A prima vista la media sembra sui quarant’anni. C’è un ragazzino finto timido che ne avrà sì e no ventidue e, per contrasto, un uomo dalla faccia grinzosa e furba vicino ai settanta.
Non so quali reati abbiano commesso. Non lo so e non ho alcuna intenzione di chiederlo. Sono qui per insegnare, se ci riesco, come si scrive non come si campa.
Veniamo accolti con curiosità, direi quasi con entusiasmo. Sembrano fanciulli. Forse hanno rubato, imbrogliato, violentato o picchiato il prossimo, ma adesso sembrano ragazzi in attesa che la festicciola incominci.
Tocca a me fare l’introduzione. Sergio Meda è contento di lasciarmi il compito, lui interverrà dopo. Il saluto formale che mi viene rivolto, “buongiorno professore” non mi aiuta, tutt’altro, ma chissà, forse è proprio quell’approccio cattedratico a suggerirmi che se devo rompere il ghiaccio sarà bene che lo faccia con coraggio.
“Buon giorno a tutti. Sono qui per spiegarvi che cos’è la scrittura d’evasione…”.
Un secondo di silenzio, un’attesa carica di imbarazzo, poi una risata collettiva.
È fatta. Diventeremo amici.

++++

Il corso di giornalismo e scrittura creativa nel carcere di Bollate è durato dieci ore: due alla settimana, il martedì pomeriggio, per cinque settimane. Abbiamo parlato di sport, politica, spettacolo, abbiamo provato a scrivere dei racconti, inventarci delle storie, abbiamo fatto dei giochini con le parole ed è stata un’esperienza interessante e formativa. Per loro e per me. Non credo che da Bollate uscirà un nuovo Edward Bunker, ma a qualcosina il corso è senz’altro servito. Se non altro al morale e all’autostima.
Al termine del primo incontro, quando ancora mi chiamavano “professore” e mi davano del “lei”, rinviando di soli sette giorni il passaggio cameratesco al Lello e al “tu”, appena fuori dalla porta, in corridoio, mi ha avvicinato Carlo.
Il volto magro solcato da due lunghe rughe verticali, la barba incolta e ispida, gli occhi neri, non aveva pronunciato una sola parola per tutta la durata della lezione. Mi ha preso da parte e, prima di infilarsi nel raggio che porta alla sua cella, finalmente ha aperto bocca.
“Io un libro l’ho già scritto”.
“Ah, bene”.
“L’ho scritto quando ero a San Vittore”.
“Capisco”.
“Adesso vorrei pubblicarlo”.
“Non è facile. Di che cosa si tratta?”.
“L’Orlando Furioso”.
“Scusa…”
“Una specie di Orlando Furioso. Come si fa a pubblicarlo?”
“Vediamo. Intanto dovrei almeno leggerlo”.
“La prossima volta glielo porto”.
“Quanto è lungo?”
“Io scrivo a mano su un quadernetto. Saranno quindici pagine”.
“Va bene. Portamelo”.
Non me l’ha mai portato, quell’Orlando Furioso in quindici pagine di un quadernetto, ma ogni settimana, al termine delle lezioni Carlo mi ha preso da parte in corridoio, per dirmi, confidenzialmente, che lui un libro l’aveva già scritto, quando era a San Vittore, era una specie di Orlando Furioso e voleva trovare il modo di pubblicarlo perché “quando uscirò di qui non so come farò a campare. Non ho più un lavoro, la famiglia mi ha scaricato, se almeno riuscissi a guadagnare qualcosa con le vendite del libro…”.

++++

Anche Manolo scriveva a mano. Una grafia irregolare, nervosa, le “g” che sembravano “f”, le “t” che si confondevano con le “l”. Non c’erano le “q”. Manolo scriveva “cuando”, “cualsiasi”, “cuesto” e “cuello”. Ma scriveva tanto, tantissimo, e aveva fantasia. Quando, al termine di una lezione sulla trama, ho chiesto a tutti quanti di provare a scriverne una che avremmo commentato la settimana successiva, gli altri hanno buttato giù poche righe schematiche, Manolo una dozzina di pagine di quaderno (“cuaderno”?) che ha letto ad alta voce, con enfasi e partecipazione.
Era una storia di rapine, fughe e tradimenti nel più classico e tradizionale dei racconti noir. Si concludeva con quello che Manolo considerava un lieto fine: la fuga in mare aperto su uno yacht carico di refurtiva, in barba ai poliziotti.
“Che ne dice? Posso farlo diventare un libro?”
Il più pronto a rispondere, al posto mio, è stato il detenuto che gli stava a fianco. “Basta che cambi il finale, Manolo. Le storie di rapine finiscono sempre qua dentro, dovresti saperlo. Altro che lo yacht in mare aperto…”

++++

A Gianni, Pierluigi e Claudio interessava maggiormente il giornalismo. A Gianni e Pierluigi lo sport, a Claudio la politica. Ed è toccato a Sergio Meda farsene carico. L’hanno martellato per due ore a fila. Domande a raffica, curiosità, incredulità.
“Davvero hai conosciuto Pantani? E com’era, com’era Pantani?”.
“E chissà quante attrici, quante belle donne hai intervistato, eh Sergio, chissà quante…”.
“Come si fa a diventare giornalisti? È difficile? A me piacerebbe fare il giornalista televisivo”.
A questo punto li abbiamo sfidati.
“Volete fare i giornalisti? Va bene, facciamo una prova. Immaginate di intervistare un personaggio famoso, uno qualsiasi, vivo o morto non importa. Domanda e risposta, come se fosse un’intervista reale”.
Sette giorni dopo abbiamo letto gli articoli ad alta voce.
Claudio aveva intervistato l’ex ct della Nazionale Marcello Lippi, e va bene, ma Pierluigi aveva voluto incontrare Benito Mussolini, Carlo addirittura Hitler e Marietto aveva chiesto a Einstein di spiegargli, in poche parole, i misteri dell’universo.
Grottesche, improponibili, assurde, ma comunque interviste crude, dirette, di pancia.
“Sì, io effettivamente ogni tanto scrivo già per il giornalino del carcere di San Vittore” ha detto Claudio, tirandosela un po’, a Sergio Meda dopo aver ricevuto i complimenti per la sua intervista a Lippi. Era curiosa, in effetti, perché composta da una domanda e due risposte. La prima risposta era quella che l’allenatore dava alla stampa, formale e diplomatica; la seconda era la risposta vera che non veniva però esternata ma restava nella mente di Lippi e nell’immaginazione del suo furbissimo intervistatore.

+++++

Durante i giorni del corso, tanto per gradire, si era registrato l’ennesimo assassinio di una donna. Era nato il termine “femminicidio” e di questo abbiamo parlato con i detenuti durante la lezione. Mentre Sergio spiegava come nascono e, grazie ai giornali, diventano popolari certi termini, vedi tangentopoli o rottamazione, o certi soprannomi come il Trota, Supermario o i grillini, Giancarlo mi ha tirato per un braccio, si è curvato verso di me, obbligandomi a fare lo stesso, ha avvicinato la bocca al mio orecchio e mi ha confidato:
“Io so perché da qualche tempo vengono uccise tante donne”.
“Ah, e perché?”
“È colpa dei giudici”.
“Dei giudici?”
“Sì, perché vedi, se tu violenti una donna e poi la lasci andare, quella ti denuncia e ti danno una dozzina d’anni. Giusto? Se dopo averla violentata la ammazzi, ti danno diciotto, vent’anni, difficilmente l’ergastolo perché trovano sempre un’attenuante, e col rito immediato gli anni diventano dodici, tredici, insomma che la ammazzi o la lasci andare alla fine la pena è più o meno la stessa”
“Già”.
“Però c’è una differenza. Se la lasci andare quella ti denuncia sicuro. Se la uccidi puoi anche farla franca. Questo pensano gli assassini. Io non è che sono d’accordo, ci mancherebbe. Io semplicemente l’ho capito. Ho capito perché è nato il femminicidio. È colpa dei giudici, che sono teneri con gli assassini e severi con i violentatori. Io ho preso quattro anni e otto mesi. Non tutti in un colpo, un po’ alla volta. Sono stato con una che era consenziente, quella mi ha denunciato: un anno e mezzo! Nel retro del mio negozio, io avevo un negozio di parrucchiere che adesso non ho più, le commesse si prostituivano, senza che io ne sapessi niente: altri diciotto mesi per induzione alla prostituzione e io non c’entravo. Poi ho messo la mano sulla spalla di una ragazza, così, appena appena, una mano sulla spalla, quella mi ha denunciato e un’altra condanna. Insomma…”
“Insomma?”
“Insomma, fra un po’ esco, ho quasi finito e quando esco vorrei fare l’investigatore, perché io ho capito perché succedono tanti delitti. Come si fa a diventare investigatori? Lo sai come si fa?”

+++++

Il problema del “che fare” una volta usciti ce l’hanno in molti, dall’autore dell’Orlando Furioso all’ex parrucchiere che ha capito tutto sul femminicidio. Lo sa anche la direzione del carcere e difatti Bollate, nato nel 2000 come “Istituto a custodia attenuata per detenuti comuni”, è in prima fila in Italia per quanto riguarda l’opera di reinserimento nella società al termine della pena. Reinserimento che significa soprattutto prevenzione della recidiva. Le statistiche dicono che su cento detenuti che lasciano il carcere di Bollate soltanto dodici ci ricascano, una percentuale molto più bassa di quella delle altre carceri italiane.
Non ci ricascano perché durante la detenzione hanno imparato un lavoro. Qui c’è la falegnameria, c’è la sartoria, si fa giardinaggio, c’è un orto botanico che lascia a bocca aperta, si curano i cavalli, c’è il laboratorio di riparazioni elettroniche. Sono i detenuti di Bollate, sì, loro, che mettono a posto i nostri telefonini guasti.
I reclusi sono 1040, soltanto 70 in più dei previsti 970, un esubero ridicolo rispetto a San Vittore che rischia ogni giorno di scoppiare. Dieci sono ergastolani, tra cui il già citato Vallanzasca, tutti gli altri con pene definitive che variano dai tre ai trent’anni. Le donne sono una cinquantina. Tra queste c’è Rosa, quella della strage di Erba, compagna di Olindo, e fino a poco tempo fa c’era Vanna Marchi, ora tornata in libertà. L’ho incrociata una volta, Vanna Marchi, io entravo, lei usciva quando era ancora in regime di semilibertà. Lo sguardo di sempre, gelido e sprezzante.
La polizia penitenziaria è formata da trecentonovanta persone, gli educatori sono tredici, gli psicologi quattro e gli impiegati una cinquantina. Poi ci sono i volontari, tra cui Sergio Meda e io, che insegnano la pittura, la ceramica, l’uso del computer, il teatro, il giornalismo, la scrittura…
“Questo per noi è un albergo a cinque stelle” dice Antonio “Chi viene destinato qui può dirsi fortunato. Il personale è umano, c’è ordine, rispetto delle persone, pulizia. Non come a San Vittore che di notte ti svegli perché hai uno scarafaggio che ti cammina sul petto, o come a Poggioreale, un inferno. Io sono stato sia a San Vittore sia a Poggioreale e non vi dico. Certo pure qua bisogna stare all’occhio, ogni volta che vuoi fare qualcosa ci vuole la domandina. La domandina, che incubo, la domandina…”.
Già, la domandina. Anche per partecipare al corso di scrittura c’è voluta la domandina. Domandina scritta, naturalmente. Il diminuitivo credo che dipenda dal fatto che la Domanda, quella vera e grande, per un detenuto è soltanto quella di grazia. Ma forse è soltanto una mia congettura.

++++

Al quarto incontro ho fatto una gaffe. Involontaria, come tutte le gaffe. La lezione stava finendo, stavamo ormai cazzeggiando, avendo esaurito tutti gli argomenti del giorno, i detenuti ancora non si alzavano per ritardare il più possibile il ritorno in cella e a quel punto ho chiesto: “Chi sarà il primo di voi a uscire?”.
Nella stanza è piombato il gelo. Nessuno ha risposto, è cessato anche il lieve brusio che riempiva l’aria. Tutti zitti e immobili, soltanto un vorticare di sguardi. Mi sono guardato intorno anch’io, cercando di capire che cosa fosse successo. Poi, dopo un tempo interminabile, il detenuto settantenne dal volto grinzoso mi ha detto: “Lello, queste domande non si fanno. Mai”.
Ho chiesto scusa senza chiedere neppure il perché.
Il gelo piano piano si è sciolto, l’atmosfera è tornata quella di prima, ma il tarlo ha continuato a girare nella testa di qualcuno che sulla porta mi ha chiesto: “Perché prima ci hai fatto quella domanda?”.
“Mah… così… per curiosità. Perché mi sembrava che tra noi si fosse creato un clima di confidenza”.
“Nient’altro?”
“Nient’altro”.
“Ti credo”.
Non ho mai capito il senso vero della gaffe, ma la fastidiosa sensazione di averla commessa mi è rimasta addosso per un bel pezzo. E poi ho capito. Ho capito che la vita nel carcere è costellata di leggi non scritte. Quella di non fare domande sulla scarcerazione è una, ma ce ne sono altre che riguardano le malattie, i soldi, i permessi, le punizioni. E soprattutto una, la regola-regina il cui rispetto mi è stato raccomandato dall’assistente sociale. Non bisogna mai chiedere a un detenuto perché è finito dentro. Io sono stato dieci ore a contatto con i partecipanti al corso di scrittura e questa domanda non l’ho mai fatta. Soltanto uno, l’aspirante investigatore, mi ha confidato le sue colpe, ma è stato lui a volerlo fare. Gli altri potevano essere ladri, truffatori, rapinatori, violentatori, potevano aver commesso reati di qualsiasi tipo, io non l’ho mai saputo. Non ho fatto la gaffe di chiederlo.
“Ma se anche l’avessi domandato” mi ha detto l’assistente sociale, “stai tranquillo che ti avrebbero risposto tutti di essere vittime innocenti di un errore giudiziario” .

++++

L’ultima lezione del corso è arrivata in fretta ed è stata una sensazione strana. Ho detto all’inizio che il giorno della prima lezione i detenuti sembravano ragazzini curiosi ed entusiasti. Bene, l’impressione finale è stata ancora più strana. Erano tutti molto soddisfatti dell’esperienza fatta, ma soprattutto erano dispiaciuti che fosse già finita. Ci hanno salutato, hanno chiesto le nostre mail per poterci contattare in futuro e ci hanno detto che faranno una domandina perché il corso possa avere un seguito al più presto. Infine, sulla porta, il commento mozzafiato affidato al più rappresentativo di loro:
“Grazie Lello, grazie Sergio. È stata una bellissima esperienza. Durante le ore del corso, parlando di libri, giornali e sogni, ci avete fatto sentire liberi”.

Lascia un commento

Archiviato in Uncategorized

Maigret, adieu

A Libri di Notte, la festa di inizio estate dedicata alla lettura ho letto questo piccolo giallo. Provate a trovare il colpevole.

La prima a preoccuparsi fu Sabina. Lei lo conosceva bene e sapeva della sua ossessione per la puntualità. Jules Maigret non arrivava mai in ritardo a un appuntamento, mai. Non lo faceva da quando, a soli ventidue anni, per un ritardo di venticinque minuti aveva perso Sophie che, stanca di aspettarlo, se l’era squagliata con un altro. Da allora aveva giurato a se stesso che mai più nella vita avrebbe mancato un appuntamento.
E così era stato. Sempre puntuale, puntualissimo, molto spesso addirittura in imbarazzante anticipo.
Come mai, allora, quella sera tardava? La festa in libreria era già incominciata, Montalbano aveva divertito il pubblico raccontando gli sproloqui di Cattarella, Petra Delicado aveva spiegato perché considerava addirittura terapeutico battibeccare di continuo con il suo vice Fermin Garzon e adesso teneva banco Hyeronimus Bosch.
Mentre il vecchio investigatore americano parlava, Sabina, senza riuscire a concentrarsi sulle sue parole, teneva lo sguardo fisso verso l’ingresso. Aspettava di vedere la sagoma di Jules Maigret, uno degli ospiti più illustri, forse, nelle aspettative dei clienti della sua libreria, appena un gradino sotto Sherlock Holmes, l’ineffabile Sherlock Holmes che, lui sì, era arrivato puntualissimo e da mezz’ora si aggirava pipa in bocca tra gli scaffali, con il dottor Watson che lo seguiva passo passo come un cagnolino.
C’erano tutti. Italiani e stranieri. Uomini e donne. Philippe Marlowe chiacchierava con Hercule Poirot, miss Marple parlava con Key Scarpetta, l’ispettore Stucky scherzava con Kostas Charitos, l’avvocato Guerrieri guardava con riverenza Perry Mason non trovando neppure il coraggio di rivolgergli la parola.
C’era anche Jack lo Squartatore, ma in incognita.
In breve tempo l’atmosfera si era riscaldata. Investigatori di tutte le nazionalità, italiani, francesi, inglesi, svedesi, greci, turchi, americani, sembravano perfettamente a loro agio tra gli scaffali del “6 Rosso”.
Sabina decise di non aspettare oltre. Era ora che la festa d’estate incominciasse, che saltassero i primi tappi di spumante. Si diresse verso il retro della libreria, dove aveva ricoverato le bottiglie. La porta era chiusa a chiave, la aprì ma non prese neppure una bottiglia perché, appena aperta la porta, ebbe un mancamento e lanciò un urlo.
Un urlo acuto. Un grido raggelante. Il grido che si lancia quando si trova un cadavere.
Il cadavere era quello di Jules Maigret. Il suo corpo giaceva vicino alle bottiglie. La faccia sul pavimento, un coltello infilato tra le scapole.
A quel punto successe quel che succede sempre in questi casi. Urla, confusione, isterici inviti alla calma fino all’arrivo del medico e dell’investigatore.
Il medico non potè che accertare la morte di Maigret, l’investigatore, il sostituto procuratore Luca Cassano, si guardò in giro sgomento.
Non era gente normale, quella. C’erano investigatori di tutto il mondo e di tutte le epoche. E non soltanto loro. Anche i loro padri e le loro madri: Conan Doyle, Agatha Christie, Andrea Camilleri, Georges Simenon, Rex Stout, Fulvio Ervas, Fred Vargas, P.D. James, Jeffrey Deaver, Edgar Allan Poe…
Luca Cassano si grattò la testa preoccupatissimo. Sempre a lui dovevano capitare questi strani casi. Già una volta aveva indagato sull’assassinio di Tecla Dozio uccisa da uno scrittore fallito nella sua libreria del giallo. Adesso l’assassinio di Maigret, che diamine…
Si scosse e cercò di capire come erano andate le cose. Maigret era stato accoltellato alle spalle, questo era chiaro, ma il delitto non era avvenuto nel retro della libreria, perché la porta era chiusa a chiave e la chiave l’aveva soltanto Sabina. Era dunque impossibile che Maigret fosse stato attirato nel retro con una scusa e lì ucciso. Era stato ammazzato in un altro luogo. Già, ma se era stato accoltellato altrove come aveva fatto il suo corpo a finire lì? Chi l’aveva portato? E quando, visto che Sabina non si era mai allontanata dalla libreria?
Il mistero sembrava insolubile. Il corpo di Maigret era stato spostato da un posto all’altro senza che nessuno se ne accorgesse. Chi poteva averlo fatto senza farsi notare, senza destare sospetti?
Luca Cassano si guardò intorno. Scrutò uno a uno i volti delle persone intervenute alla notte d’estate e improvvisamente capì.

Lascia un commento

Archiviato in news

La notte bianca (e anche un po’ gialla) dei libri è vicina

Il 21 giugno si avvicina. Sarà il primo giorno d’estate, ma sarà anche la notte bianca dei libri. In oltre duecento librerie d’Italia e più di quaranta biblioteche si farà l’alba leggendo pagine, chiacchierando di libri e di autori, ascoltando musica e poesie. Io sarò a Milano, alla libreria “6 Rosso” di via Albertini, in zona Paolo Sarpi, e leggerò un brevissimo racconto giallo scritto per l’occasione. Il primo che indicherà il nome del colpevole vincerà, ovviamente, un libro giallo. Per la cronaca la vittima del mio racconto è nientemeno che Jules Maigret. Ci vediamo il 21 notte.

Lascia un commento

Archiviato in news

Libri scritti a quattro mani

Per divertirci un po’ alla fine del corso di scrittura abbiamo fatto questo giochino. Provate anche voi.

1. Che libro avrebbero scritto insieme Umberto Eco e Edgar Allan Poe?
2. Che libro avrebbero scritto insieme Susanna Tamaro e Joseph Conrad?
3. Che libro avrebbero scritto insieme John Steinbeck e Agatha Christie?
4. Che libro avrebbero scritto insieme Paolo Giordano e Garcia Marquez?
5. Che libro avrebbero scritto insieme Elsa Morante e Michael Ende?
6. Che libro avrebbero scritto insieme Raymond Chandler e Ernest Hemingway?
7. Che libro avrebbero scritto insieme Graham Green e Vargas Losa?
8. Che libro avrebbero scritto insieme Pier Paolo Pasolini e Luciano Bianciardi?
9. Che libro avrebbero scritto insieme Luigi Pirandello e Thomas Mann?
10. Che libro avrebbero scritto insieme Oriana Fallaci e Nathaniel Hawthorne?
11. Che libro avrebbero scritto insieme Primo Levi e Robert Musil?
12. Che libro avrebbero scritto insieme Ernest Hemingway e Mario Soldati?

2 commenti

Archiviato in news

Fine del corso, anzi no, quasi fine…

Questa sera a Bergamo, libreria universitaria LIUB di via dei Caniani, ultima lezione del mio corso di scrittura creativa. Leggeremo ad alta voce i testi scritti dai partecipanti, li commenteremo insieme e poi… e poi ci rivedremo un’altra volta, perché me l’hanno chiesto gli iscritti e l’ho presa come una bella gratificazione del lavoro fatto. Di solito quando finisce la scuola gli studenti festeggiano e si fanno i gavettoni. Stavolta hanno insistito per fare un’altra lezione. Bello, no? Ma devo aggiungere una cosa: l’ultima lezione la faremo in pizzeria.

Lascia un commento

Archiviato in news

Tutta la notte con un libro tra le mani

Sappiate che il prossimo 21 giugno, prima notte d’estate, non si dorme. È in programma “Letti di Notte” ovvero una notte bianca con i libri. Dal tramonto all’alba in 150 tra libreria e biblioteche d’Italia si troveranno scrittori, lettori, librai, editori a leggere e parlare di libri. Io trascorrerò la notte a Milano, presso la libreria “6 rosso” di via Albertini, una traversa di Paolo Sarpi. È prevista una notte gialla e leggerò un breve racconto giallo scritto per l’occasione. Vi aspetto.

Lascia un commento

Archiviato in news

Ma che bravi questi corsisti…

Non poteva concludersi meglio il corso di scrittura creativa che, affiancato da Sergio Meda, ho tenuto presso il Liceo Musicale di Varese. Gli iscritti hanno partecipato con entusiasmo, hanno anche stretto amicizia tra loro che non guasta, e soprattutto si sono impegnati seriamente. Tanto seriamente che alla fine Sergio Meda, direttore di SportivamenteMag, raffinato quotidiano sportivo on line, ha chiesto di scrivere un articolo di argomentpo, o comunque sottofondo sportivo, ed ecco il prezioso testo di Angela Borghi, una delle allieve. Lo trovate su SportivamenteMag ma non solo. È piaciuto anche a Panorama.it che l’ha messo on line a sua volta. Cliccare sul link qui sotto per credere.
E io sono molto contento e anche un po’ inorgoglito.
http://sport.panorama.it/menotti-argentina-milano-inter

Lascia un commento

Archiviato in news

Il corso della vita

Dopo sedici ore propositive, proficue e, perché no?, divertenti, si è concluso in bellezza il corso di scrittura creativa che ho tenuto a Varese, con il prezioso appoggio di Sergio Meda. E ho chiesto proprio a lui, a Sergio Meda, di scrivere l’articolo cnclusivo, nel quale se l’è presa soprattutto con i disertori. Eccolo.

di SERGIO MEDA – Alla terza lezione aveva sibilato che se Lello, il prof con quel nomignolo buffo, non si fosse ricordato il suo nome, se avesse continuato imperterrito a fare l’appello, avrebbe chiuso lì. Belloccia, non tollerava di passare inosservata. Capita con le donne di ogni età.

Altri sembravano lì per caso, secondo me qualcuno aveva sbagliato corso. C’era anche, non lontano, quello di rieducazione alla sobrietà, genere alcolisti anonimi, un ottimo eufemismo per evitare di parlare di dipendenze.

In effetti, uno degli scomparsi cercava sempre la ludoteca, difficile da trovare in un liceo musicale di Varese. Continuava a dire slot e nessuno sembrava capire che si riferiva alle macchinette, che a Varese ci sono. Meno che a Pavia ma ci sono. Anche lui scomparso alla terza lezione.

Un altro, verosimilmente un portantino, parlava sempre di ambulanze ma poteva essere un suo trip, senza angoscia. Sarebbe stato bello annotarlo in sirena, magari portato via da un’emergenza, un bel martedì notte. Niente di inaspettato, se n’è andato anche lui senza rumore. al massimo un fruscio.

Quello dei vascelli, dei pirati, una specie di Robinson Crusoe post litteram, sparito lui pure una bella sera. Forse ha trovato una fidanzata che apprezzava i suoi racconti.

La quarta lezione del corso fu una morìa. Non un’ecatombe ma quasi. Dai 17 presunti corsisti a massimo 12 massimo non è un conforto per chi dovrebbe avere a cuore le pecorelle se si smarriscono. Ma il prof non se ne curava. Pecora smarrita non bela più.

Il prof si era portato anche un cane, non lo teneva al guinzaglio, ma gli sedeva vicino. Meglio, si accucciava. Ogni tanto una museruola sarebbe stata opportuna, soprattutto quando ringhiava a questo o a quella i suoi modi di essere. Un cagnaccio.

Quante storie nel Corso della vita…

2 commenti

Archiviato in Uncategorized

Varese parte II: il trascorrere del corso

di SERGIO MEDA

Del corso varesino di scrittura creativa tenuto da un avveduto scrittore con trascorsi di giornalismo già sapete. Vi manca soltanto la piega (buona) che il corso, nel suo dipanarsi, ha preso. Dopo aver assistito a tre ricorrenze – ogni incontro è tale, perché cadenzato settimanalmente, il martedì sera – nessuno dei partecipanti coltiva l’ambizione di divenire un giorno un autore celebrato, costretto suo malgrado a improbabili dediche affettuose a chi gli si affolla intorno dopo aver lodevolmente acquistato il suo capolavoro.

Come direbbe Camilleri, “si sono fatti tutti persuasi” che stanno partecipando a un gioco divertente che apre la mente, in alcuni casi la spalanca alle frontiere della scrittura che è sì inventiva, creatività, ma è soprattutto metodo, applicazione e, molto spesso, sacrificio. Talvolta con risultati apprezzabili per chi se ne fa carico.

Con levità lo sta predicando il docente, sempre paziente, attento a non mortificare alcun impulso, a rispettare le ambizioni di ciascuno per quello che è, al momento, e per quello che vorrebbe essere, a sua propria dimensione.

Il gioco consiste nel partecipare (il barone de Coubertin è ancora tra noi, per fortuna) e nel condividere. Sani principi che danno luogo a una classe che ha il vantaggio di non avere asini. Al più, qualcuno ha risolto i suoi problemi decidendo di avere altro da fare, il martedì sera. I più convinti tra i corsisti si sono dati un … doposcuola, a base di birra e due chiacchiere per conoscere meglio il vicino o lontano di sedia.

Il corso, va detto, coinvolge i partecipanti senza stressarli. Li costringe ai compiti a casa – vuoi d’intreccio, di proposta degli attori, protagonisti e comprimari, di modalità espositive, in prima persona o in forma indiretta, di dialoghi che sono per tutti uno scoglio – ma senza timore di sbagliare. I compiacimenti rimangono altrove insieme alla voglia di esibirsi. Fugace, dimenticata.

Le competizioni – inevitabili – sono confinate ai maschi, quelle femminili rimangono sotto traccia. La lettura degli elaborati legittima talvolta facce a punto di domanda, mai sorrisi beffardi. Il confronto è civile, le interpretazioni non malevole. I lavori troppo ermetici fanno dire a qualcuno, candidamente, “mi ero perso”. Alcuni proseguono i racconti sul filo delle loro fantasie.

Lascia un commento

Archiviato in Uncategorized